Accampata di fronte al centro Paolo VI: “Ridatemi mio figlio”

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Dopo un giorno e mezzo di protesta Natalina Colangelo è stata denunciata per atti persecutori, interruzione di servizio pubblico, mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, mancato preavviso di pubblica manifestazione.

La somma di eventuali condanne porterebbe a un bel po’ di anni di reclusione. Eppure la mamma di Settimo Torinese che lunedì si è accampata di fronte al Centro Paolo VI di Casalnoceto dove è ospitato suo figlio con disabilità, non si arrende. E grida di voler riportare a casa il figlio. Ieri ha trovato il cancello aperto e ha tentato di entrare, facendo scattare le denunce.

Cos’è successo

“Da quattro anni non me l fanno vedere”, si lamenta.

Di fronte al dolore di una mamma, però, ci sono sentenze e perizie di assistenti sociali e tribunali che non le danno ragione, dichiarando Cristian adottabile. “Ma non è adottabile perché lo imbottiscono di farmaci e invece di migliorare, peggiora”, prosegue Natalina, sostenendo di essere una vittima per il solo fatto di non avere modi diplomatici e di essersi inimicata troppe persone.

Ha perso, finora, le battaglie legali. Eppure non molla. Modi battaglieri e irruenti, Colangelo racconta il suo dramma.

“Mio figlio è stato dichiarato iperattivo con in più un disturbo oppositivo-provocatorio. A scuola c’era comunque un sostegno, ma siamo stati discriminati, emarginati. Invece di tenerlo in classe lo lasciavano fuori – racconta – è normale che una mamma si agiti e si innervosisca di fronte a queste ingiustizie. Così se i genitori e i docenti mi attaccavano, io rispondevo”.

Naturalmente è il suo racconto, la storia che dice di aver vissuto negli ultimi anni. Operatori, servizi sociali e forze dell’ordine hanno agito diversamente, secondo norme e leggi. Una storia difficile come sempre quando di mezzo ci sono famiglie con sentimenti e norme che nei principi vogliono tutelare le persone più fragili.

“Ho un lavoro da 24 anni, una casa di proprietà, la mamma pensionata che aiuta. Non vado a rubare”, prosegue, come a dire, le condizioni famigliari sono normali: “Dopo le lamentele degli altri genitori, me lo hanno lasciato a casa da scuola dicendo che è pericoloso per sé e per gli altri. Allora sono andata dai servizi sociali chiedendo di togliermi gli educatori, perché non mi servivano”.

Il braccio di ferro tra la mamma e gli enti sanitari si fa sempre più deciso, diventando anche un ‘caso’ a Settimo Torinese. “Volevano il ricovero al Regina Margherita, ma lo stesso ospedale ha rifiutato, perché non necessario”.

Il Centro Paolo VI

Il 14 gennaio 2020 Cristian viene portato in provincia di Alessandria, al Centro Paolo VI, “L’ospedale lo aveva però dichiarato contenibile e in buono stato di salute. Oggi lo trovo devastato: obeso, con crisi d’ansia e sedato tutto il giorno”, prosegue la mamma che contesta anche la perizia fatta su di lei: dichiarata borderline e quindi non idonea a svolgere il ruolo di genitore.

“Non si può decidere così, dopo solo quattro colloqui. Non hanno preso in considerazione la perizia di parte in cui si diceva che il bambino a casa conduceva una vita dignitosa. Adesso è un recluso al 41 Bis”, lamenta.

Le proteste si fanno sempre più veementi, ma non portano a nulla, anzi. Più si incattivisce urlando nomi e cognomi di medici e giudici che ritiene responsabili di un sopruso, più viene emarginata e tenuta a distanza dal figlio.

“Non ho dubbi che i servizi sociali facciano bene il proprio lavoro, ma nel mio caso hanno sbagliato”, precisa, sottolineando gli anni persi: “Non sono certa che stia studiando con un insegnante di sostegno. Altri genitori con ragazzi ospitati a Casalnoceto mi riferiscono che non sia un ambiente idoneo”.

Il Centro Paolo VI è una proprietà della diocesi di Tortona ed è nato come centro psico-pedagogico e centro di recupero extra ospedaliero. Al suo interno i ragazzi hanno disturbi psichici, problemi di autismo, disturbi del comportamento e altre disabilità. La procedura di ammissione dei soggetti è avviata su richiesta dei Servizi Territoriali. “Gli interventi – si legge sul sito – sono coerenti con i bisogni del paziente e della famiglia”.

Non sempre i trattamenti sono in linea con le cure che vorrebbe un genitore, ma evidentemente sono considerati idonei caso per caso.

“Me lo stanno rovinando – prosegue – me lo tengono fino ai 18 anni e poi via, lasciato al suo destino come uno zombie, rovinato dai farmaci e dalla lontananza della famiglia?”.∎

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