In fondo possiamo farcela. Non deve essere così difficile immaginare un mondo in cui essere donna non corrisponda ad avere un corpo puntualmente mortificato, nel nome di una supremazia maschilista e retrograda, o bistrattato dalle critiche aspre e sterili di altre donne.
Le recenti polemiche sul “burkini”, il costume che le musulmane dovrebbero indossare per poter fare il bagno al mare o in piscina, hanno portato inevitabilmente a galla una verità che in molti ancora ignorano. Ingannati da pubblicità in cui le ragazze appaiono sorridenti e scherzose, magari alla guida di un’auto nuova o intente a provare un rossetto dai toni strong, persi in luoghi comuni che rappresentano la popolazione femminile come “fin troppo disinibita e frivola”, abbiamo perso il contatto con una realtà ben diversa.
Vittime, forse, di una quotidianità rappresentata ad hoc per farci credere di vivere in un mondo in cui ogni essere umano di sesso femminile può vivere in maniera autentica, viscerale, e perché no sbarazzina. I fatti però parlano chiaro: le donne non sono ancora libere. Senza scomodare costumi di altri paesi, basta guardarci attorno per capire come la mentalità comune non sia poi così solidale e aperta come crediamo.
Forse adesso in Italia e altrove le ragazze possono camminare in spiaggia fasciate in bikini stringati e dai colori sfavillanti, con disapprovazione delle nostre nonne, a cui non era concesso nemmeno un semplice costume intero, e magari ai giorni nostri godono della facoltà di sposare chi vogliono senza farsi imporre da qualcuno di condividere l’eternità con chi non si vorrebbe trascorrere neanche un minuto, come accadeva diversi anni fa. Eppure qualcosa ci sfugge.
Fatti di cronaca riportano episodi aberranti, violenze inaudite su donne che avevano scelto di essere se stesse, di andare a ballare, di calzare un pantalone troppo stretto, e per questo sono state punite con la morte, la mutilazione, lo stupro, l’umiliazione pubblica. Corpi sfregiati per sempre dall’odio incondizionato di chi vorrebbe imporsi su quello che ancora viene definito un oggetto, un utero che acquista valore solo se gravido e privo di pulsioni di carattere sessuale, contenitore senza identità ne pretese.
Decidere o meno se un essere umano debba coprirsi per andare al mare sotto al sole d’agosto è già di per se un paradosso. Passeggiare a tarda notte avendo paura di essere aggredite e poi giudicate, da chi ignora il dolore di un essere umano per misurarne la lunghezza della gonna e trarne conclusioni, non è meno allucinante che sopportare il caldo nel nome di qualche norma morale che guardiamo di storto. E quindi siamo al punto di partenza. Cervelli pensanti che si domandano a chi sia consentito chiedere il permesso per mostrare o meno le loro grazie, ignorando il lume della ragione che già dovrebbe suggerirci cosa sia giusto o sbagliato. E così proseguono.
Le donne vanno avanti, timorose di godere della loro bellezza, bombardate da massi media che propongono soluzioni a problemi estetici, enfatizzati proprio per coltivare il loro disagio, poco attente a non perdere quella scintilla che saprebbe illuminarle molto più di una crema di bellezza, ovvero il magnetismo di chi vive consapevole del proprio potere, non permettendo a nessuno di decidere quale sia il posto da occupare al mondo.
Serena Muda
Sì, il problema non è “burkini sì” o “burkini no”. O meglio, quello viene dopo e la risposta non è così banale. Il primo problema (che tocca tutte le donne e non solo le musulmane) è che qualcuno debba decidere al posto delle dirette interessate e che pochi notino questo come una stortura e un grande passo indietro per la nostra società. Molta strada è stata fatta per dare questa libertà alle donne, questo non va dimenticato. Prima di tutto non va dimenticato dalle donne stesse e da tutti gli uomini con esse solidali. Non va dimenticato e va rivendicato conforza in ogni circostanza che lo metta in discussione. Senza un livore generico verso l’uomo, visto così spesso genericamente come oppressore. Perché spesso il “nemico” è anche l’altra donna invidiosa o plagiata. E su questo c’è ancora molto da lavorare.