Il presepe napoletano è immaginato e descritto come un microcosmo che, dal vocio di viuzze e montagnole, discende nel silenzio miracoloso della Natività. È un transito notturno, il viaggio dal buio verso la luce. Un’epifania tra le tenebre che ricorda le natività fiamminghe di Stomer, dove il Verbo incarnato fiammeggia non solo nello Spirito ma anche nel dato fisico, illuminando l’ambiente secondo la lezione di Caravaggio e della più bella Natività del Rinascimento, per me: La Notte del Correggio.
Non è però soltanto questo alito mistico ad avvolgere il presepe; esiste anche una teatralità pagana, da messa in scena orgiastica, che aggrega fede cristiana e resistenze magiche, tra intrusioni moderne e reminiscenze greco-antiche.
In alcuni presepi Napoli è una città infernale: vive al buio in funzione di una luce che arriverà. È poliritmica in senso dionisiaco, porosa come la descrisse Walter Benjamin, quando non poteva ancora sapere nulla delle policromie cantate da Pino Daniele. Policromie che erutteranno dal Vesuvio di Andy Warhol, spruzzando in cielo stelle filanti in ogni ambito artistico: Troisi nel cinema, Arbore e De Crescenzo in TV, Annibale Ruccello a teatro, gli scudetti nel calcio, il Neapolitan Power nella musica.
Presepi dove i pastori non sono contadini o mandriani, ma contrabbandieri, giocatori del lotto che consultano la Smorfia. Al posto del bue e dell’asinello compaiono la tigre Alfonsina e la cavalla Ernesta; tra gli Arcangeli spiccano Califano in Porsche e il principe di Sansevero. Il ruolo della zingara se lo dividono Rosetta Cutolo e Anna Maria Ortese, raccontate a specchio come fossero gemelle siamesi e negromantiche.
Non possono mancare i diavoli — i due Raffaele, Cutolo e La Capria — che assicurano la presenza del Male, che si aggira sempre e comunque per il mondo, anche la notte di Natale, per appurare l’effettiva nascita del Messia.
Gli zampognari non suonano Astro del ciel ma Notte che se ne va dei “Vai mo”, l’album più soffuso di Pino Daniele, che pare il ritratto di Giancarlo Siani: un ragazzo, giovane cronista che urlò la verità come un blues e ricevette in cambio la notte. Non quella delle natività, però: quella che cala nelle Pietà nordiche, dopo la Crocifissione. Invece, “Giancarlo era quel lume che gli Etruschi chiudevano per sempre nelle tombe”.
Comodo appropriarsene per le parate antimafia: tanto le reliquie dei martiri schizzano gocce di santità su chiunque. Ma ci vogliono gli abusivi, gli irregolari, gli scorretti per cantarlo davvero, perché solo di questi è il lutto.
Enrica GARDIOL

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