Il selfie è molto meglio della foto “posata“. E non lo dico solo per partito preso. Lo dico perché il selfie è, almeno, onesto. È un gesto intimo, un piccolo atto di narcisismo consapevole, un’autocelebrazione senza intermediari. È egocentrismo, certo. Ma è un egocentrismo che si consuma in proprio, nel silenzio di un momento personale, che non coinvolge nessun altro se non noi e il nostro riflesso nello schermo.
Al contrario, la foto posata scattata su richiesta è un’altra storia. Un’altra dinamica, un altro teatro, dove si recita male e si vive peggio. È la pretesa di spontaneità sotto controllo. È l’illusione studiata del “guardami mentre fingo di non guardarti”. È quel momento assurdo in cui qualcuno — spesso una donna, perché diciamolo: è una dinamica che ci riguarda da vicino — chiede a un malcapitato (partner, amico, passante, coinquilino) di diventare strumento del proprio spettacolo narcisista.
“Vai lì, mettiti lì, adesso io vado là. Fammi una foto mentre cammino. No aspetta, rifalla. Non guardarmi, fammi sembrare naturale.”
Ecco, in quel momento succede qualcosa di strano. Non sei più tu. Sei un personaggio che recita una parte in un film che non andrà mai al cinema. Ti atteggi, ti sistemi i capelli, fingi di ridere, magari guardi in alto come se avessi appena visto qualcosa di meraviglioso. Ma non c’è nulla. Solo l’idea di apparire meravigliosa per chi, forse, vedrà quella foto online. È il dramma della spontaneità programmata. Una commedia triste che tutti recitiamo, prima o poi.
Almeno il selfie è dignitoso. Ti metti lì, ti guardi, scegli l’angolazione migliore, premi il tasto. Fine. Nessuno è stato disturbato nel processo. Nessuno ha dovuto fare da complice, da cameraman, da servo dell’altrui autocompiacimento. Il selfie è un soliloquio. La foto posata è un monologo che pretende applausi da un pubblico reclutato a forza.
E non è questione di tecnologia, né di vanità digitale. È una questione di potere, di dinamiche relazionali, di ruoli sociali che si ripropongono anche nelle piccole cose. Perché dietro ogni “mi fai una foto?” si nasconde un sottile gioco di dominio, una richiesta di collaborazione che spesso non ammette rifiuti. È la performance dell’egocentrismo con scenografia, regia e fotografo esterno. È il selfie portato all’eccesso, dove l’altro diventa semplice estensione del nostro desiderio di apparire.
E in tutto questo, la spontaneità muore. Sostituita da un’estetica dell’apparire che nulla ha a che vedere con la realtà. E nemmeno con l’arte. Solo con l’autopromozione mascherata da naturalezza. Il selfie, invece, non finge. Ti prende come sei — o almeno come vuoi essere — senza invadere il tempo, la pazienza, la libertà di nessun altro.
Sarà pure un segno dei tempi. Sarà anche vero che ci stiamo tutti un po’ perdendo nel culto dell’io, nell’inquadratura perfetta, nel filtro giusto. Ma almeno, lasciateci farlo da soli.
E a chi invece continua a chiedere: “Mi scatti una foto mentre mi giro di spalle, con il mare dietro?”, una sola risposta: fallo da sola, amore mio. E se proprio vuoi sembrare spontanea, comincia col non comandare nessuno.
Enrica Gardiol

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