Servizio a cura di Marcello Rossi
Negli ultimi anni, un fenomeno preoccupante sta silenziosamente prendendo piede nel nostro Paese: la diffusione di una nuova lingua, figlia del politicamente corretto e dell’inclusività esasperata. Un chiaro esempio di questa tendenza si è manifestato recentemente ad Alessandria, dove alcuni cartelli dell’associazione transfemminista “Non Una Di Meno” sono apparsi sui muri dell’Università Borsalino.
I messaggi di questi cartelli, più che riflettere un sano dibattito democratico, sembrano portare avanti una pericolosa agenda ideologica che mira a riscrivere le regole della nostra lingua e, con esse, della nostra cultura. Prendiamo ad esempio il cartello principale, che solleva un quesito apparentemente innocuo: “Negli ultimi tre anni la Regione Piemonte ha destinato 2,34 milioni di euro alle associazioni antiabortiste. E tu cosa faresti con 2 milioni di euro?”
A una prima lettura, potrebbe sembrare solo un invito a riflettere sulla destinazione dei fondi pubblici. Tuttavia, è nelle proposte successive che emerge chiaramente l’intento di spingere un’agenda politica ben precisa, quella che abbraccia la “neolingua” woke. Un’espressione come “persone con utero” viene utilizzata al posto di “donne”, tentando di cancellare una distinzione millenaria tra uomo e donna, in favore di una classificazione artificiale e asettica.
La questione dell’ingresso delle associazioni antiabortiste nei consultori è senza dubbio delicata, e ognuno ha il diritto di avere la propria opinione al riguardo, sia essa favorevole o contraria. Tuttavia, l’intento di questi manifesti sembra andare oltre la semplice discussione sull’aborto, concentrandosi piuttosto su un’agenda più ampia che mira a ridefinire i concetti di genere e sessualità attraverso il linguaggio. È proprio questa forzatura linguistica e culturale che desta preoccupazione.
Non meno inquietante è la proposta di utilizzare i fondi pubblici per finanziare 3.100 terapie ormonali per l’affermazione di genere. Secondo i promotori di questa iniziativa, la collettività dovrebbe farsi carico dei costi per trattamenti che alcuni considerano più un intervento ideologico che medico. Non è una questione di discriminazione o mancanza di rispetto per chi soffre di disforia di genere, ma piuttosto una critica alla crescente pressione per far passare come “normale” ciò che fino a pochi anni fa era considerato eccezionale.
Infine, l’uso dell’asterisco per sostituire il maschile e il femminile nella lingua italiana rappresenta forse l’aspetto più simbolico di questa “guerra culturale”. Si tratta di un tentativo evidente di scardinare la struttura stessa della nostra lingua, sostituendo regole consolidate con nuove formule ideologiche. Questo non è solo un attacco alla lingua, ma anche alla nostra identità collettiva.
Al di là delle singole posizioni politiche o etiche su questi temi, è fondamentale comprendere che ciò che sta avvenendo non è una semplice evoluzione linguistica o culturale. Siamo di fronte a un vero e proprio attacco ai fondamenti della nostra società, mascherato da nobili intenti di inclusività. Se non saremo vigili, rischiamo di perdere non solo le nostre parole, ma anche ciò che esse rappresentano: la nostra storia, le nostre tradizioni e, in ultima analisi, la nostra libertà di pensiero.
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